-Svegliati, è ora di andare!
Una voce nel cuore della notte svegliò di soprassalto l’anziana signora.
Aprì gli occhi, confusa, chi poteva essere a quell’ora? La nuova cameriera? Da licenziare in tronco, come si permetteva di svegliarla nel cuore della notte così? Poco importava che avesse due bambini a carico e fosse sola, doveva imparare a comportarsi, era inaccettabile un’intrusione simile.
A tentoni cercò l’interruttore per accendere la luce, la misteriosa presenza però la precedette. Illuminando la stanza con quello che sembrava una fiamma verdastra.
La signora si disse che probabilmente stava sognando, perché quello che vide in piedi davanti a lei, non somigliava per niente ad una cameriera.
Una figura alta, con un mantello nero e il cappuccio che gli copriva il viso, in una man una falce, nell’altra un globo luminoso, che rischiarava la camera.
Sì, decisamente un sogno.
-Andiamo, è giunta l’ora!
La voce era atona e profonda.
-Sei un sogno? Chi sei? E perché dovrei seguirti?
-Sono l’unica certezza che voi umani avete nella vita, eppure nella maggior parte dei casi quando arrivo mi fate questa domanda. Non sono un sogno, è giunta la tua ora, devi seguirmi perché non hai più tempo.
Con un gesto della mano ossuta la morte fece apparire nell’aria una clessidra, restavano pochi granelli di sabbia nel cono superiore, e cadevano, inesorabili e senza sosta.
La signora la guardò contrariata.
-Io non sono pronta, nessuno mi ha avvertito, e poi sto benissimo, non ho nessuna intenzione di muovermi dalla mia casa.
La morte ridacchiò.
-Sei già morta, puoi seguirmi o restare qui appesa al tuo corpo decadente finché non accetti la realtà delle cose e ti abbandoni al flusso.
-Come? Ma...io non sono morta!
Obiettò la signora indignata, ma si accorse che stava galleggiando a mezz’aria sopra al suo letto.
Sotto di lei il suo corpo giaceva a bocca aperta, freddo e vuoto come un guscio.
Era un corpo così malconcio, rinsecchito e rugoso, quasi stentò a riconoscerlo, le sembrava una foglia secca.
-E adesso?! Che ne sarà della mia bella casa? Dei miei vestiti, dei miei gioielli? Non ho avuto tempo di sistemare le mie cose, di trovare un erede degno a cui affidare la mia eredità, il mio patrimonio!
-Hai avuto quasi 70 anni, mi sembra un tempo equo, davvero questo è il tuo più grande rammarico?
A differenza di quanto raccontano io sono generosa, e offro sempre un ultimo desiderio a chi vengo a prendere, pensaci bene, quale è la cosa che desideri di più vedere, rivivere o cambiare? C’è qualcuno che vuoi salutare?
La signora guardò atterrita la nera figura incappucciata di fronte a lei, non aveva il coraggio di guardare nell’abisso di quel nero, e non era il teschio che probabilmente si nascondeva sotto al telo pesante e scuro a terrorizzarla, ma la consapevolezza di dover guardare dentro a se stessa.
Tutta la vita le passò davanti agli occhi, la rivide come un film.
Si vide bambina, crescere fra gli agi della sua ricca famiglia, si vide conformarsi alle loro richieste per non perdere la loro approvazione.
Vide se stessa crescere e diventare donna, guardando dall’alto in basso chi le stava vicino, sempre attenta a non compromettere il suo primato, per apparire come la migliore, la più brava.
Si vide vicino ai suoi fidanzati, mai sposati perché non erano alla sua altezza.
Sentì il dolore del suo ventre vuoto, aveva tanto desiderato dei figli da crescere come esseri degni di portare il suo nome, ma non c’era mai stato nessuno all’altezza.
Si vide felice, finalmente, ereditare il patrimonio di famiglia, dopo anni passati a fare una corte devota ad una vecchia zia, zitella e amara quanto lei.
Si, finalmente, tutti i soldi di famiglia come redenzione, un pagamento per essere stata quella brava.
Mentre la sorella aveva osato sposarsi e avere figli, crearsi una famiglia sua da portare avanti con regole diverse, non era ammissibile, non li meritava.
Non la sentiva da anni sua sorella, nemmeno i nipoti a cui aveva persino offerto una parte del denaro a patto che fossero consapevoli che la madre che li aveva cresciuti da sola non li meritava.
Se ne erano andati anche loro, ingrati.
E alla fine si vide sola, con i suoi soldi, nella sua grande casa.
Sola e vecchia, di fronte alla morte.
-Fai la tua scelta, non c’è più tempo.
Le disse la morte.
La signora aveva davanti un bivio, guardare nelle viscere del suo abisso interiore e affrontare il dolore lancinante che aveva sempre evitato, o sostenere il suo percorso, cercando qualcuno a cui affidare la sua eredità karmika e materiale.
Si ricordò di una frase che qualcuno le aveva detto anni addietro.
Il sasso che raccogli è il sasso che poi devi portare con te, ed è solo tuo il peso, scegli con saggezza.
Guardò la morte e le disse
-Portami via, andiamocene con dignità, non costringermi a desiderare cose vere, fanno male, e ormai sono troppo vecchia per averle.
La morte la prese per mano, la luce nella camera si spense.
Dopo un tempo che sembrò incalcolabile la signora aprì gli occhi, una luce accecante la fece urlare di dolore, aveva freddo, e qualcosa di enorme la sollevò di peso, mettendola fra le braccia confortanti di sua madre, una madre nuova, che non conosceva ancora, ma che le aveva appena dato la possibilità di affrontare tutto quello che non aveva avuto il coraggio di guardare in faccia.
La morte rise prima di andarsene.
-Ti aspetto, ricordatene sempre, quello che non risolvi non scompare.
Questo è l’inferno...o il paradiso, dipende tutto da te, buona fortuna!
Essere femminili oggi è un casino.
Dico femminile perché il mio pensiero non è di genere, ma ha più a che fare con uno spazio spirituale, e appartiene a tutti gli esseri umani, anche a Vito che lavora al porto o a Marco, CEO in una multinazionale, che nella loro realtà di tutti i giorni di femminile hanno solo il calendario Pirelli e la segretaria.
Il femminile per come lo vivo io è un salotto accogliente, che decoriamo con fiori e teniamo pulito per accogliere ospiti e amici, è lo spazio del cuore e dell’intimità.
Il femminile non fa la guerra, crea bellezza, poesie e figli, si occupa del presente, è la parte gioiosa di ciascuno di noi che crea mondi e vite.
Il femminile è diverso e orgoglioso della sua unicità.
Il femminile balla e canta ricoperto di piume colorate e strass, vive di colori, un pò come Achille Lauro a Sanremo, fa incazzare tutti perchè è bellissimo e diverso, e non ha rispetto per il perbenismo e le istituzioni, è scomodo e sexy come il tacco dieci.
In pratica è un raffinato Pride all’interno di una villa d’epoca, in cui gli ospiti arrivano mascherati e si ritrovano nudi a rincorrersi fra fontane, orchestre e banchetti.
Il femminile non è perbene, è geniale e ispirato, è creativo ed è creazione.
Il mondo è malato perché tutto questo fa paura, è fuori controllo, e per rientrare negli schemi molte femmine non sanno più essere donne, torturate dal contrasto fra il bisogno di indipendenza, e quello di essere travolte da un grande amore che faccia girare la testa e perdere la ragione.
Tanti maschi invece ondeggiano confusi e storditi fra il desiderio di dominare ciò che non capiscono, cioè noi, e il bisogno di essere amati, che li porta fin troppo spesso a diventare zerbini di ex mogli, compagne e madri che di accogliente hanno solo il portafogli, oppure li imbruttisce facendoli diventare uomini che non devono chiedere mai, ma in quanto maschi non riescono a trovare i calzini e non è bello lasciarli soli in questo dramma.
Come ne usciamo? Non lo so, se avessi risolto questo punto probabilmente avrei fondato una comunità neo hippy su un’isola tropicale dove i calzini non servono e vi scriverei da lì.
Però una cosa la intuisco, e la riassumo in una parola: gentilezza.
Gentilezza, significa aver cura di sé stessi e di chi abbiamo vicino, è una prospettiva pura e pulita con cui accostarsi al mondo.
Conduce al dialogo, e questo è importante perché solo col dialogo profondo e sincero si può davvero arrivare all’intimità e all’amore.
La gentilezza concede libertà, perché se accostandoci con gentilezza e dialogando ci accorgiamo che chi abbiamo davanti è diverso da noi abbiamo l’opportunità di imparare cosa ci piace e cosa no, e lasciare a ciascuno la sua strada e il suo mondo.
Dobbiamo trovare un equilibrio fra il nostro lato aggressivo e quello più fricchettone e dolce se vogliamo uscire dal tunnel in cui ci siamo cacciati, e per farlo dobbiamo cambiare atteggiamento nel nostro piccolo, piano piano, e penso che cercare di essere più gentili tutti i giorni potrebbe essere una buona partenza.
Se non ci riusciamo rischiamo di finire in un mondo fatto di donne manager che vivono coi loro gatti e hanno come hobby il vaporetto, e maschi alpha che passano le serate a creare fogli Excel, o a mandare su Tinder foto del pisello al posto dei fiori dicendo che le donne sono tutte zoccole.
Salviamo noi stessi e il mondo da un tale scempio, più strass e meno stress!
L'immagine che ho scelto per illustrare questo pensiero è un particolare di "dea madre" olio su tela.
Questa è una canzone che ha scritto Pedro Laurenz, musicista argentino di inizio 900.
La cito perchè un amico di mio padre, argentino anche lui e di professione pugile lo ripeteva spesso questo ritornello, e mi è tornato utile altrettanto spesso in questi anni.
Bisogna stare attenti a quello che si canta ai bambini, si ricordano tutto, ed è curioso che di un pugile professionista, segnato dalla vita e dalla strada, io ricordi soprattutto una canzone.
La boxe vista da vicino quando hai dieci anni è molto più poetica di quello che si pensa, ma di questo vi racconterò in un altro post, oggi voglio scrivere di danza...non sono poi così distanti le due cose.
Ballare è una delle cose più naturali e belle che il corpo umano può fare.
É un gioco fatto di controllo e libertà, di equilibrio mantenuto solo grazie al giusto contrasto creato dalla lotta del corpo contro le forze della fisica.
Un’arte che forma mente e muscoli con la stessa intensità.
Ogni movimento di un ballerino prevede il compromesso fra le sue capacità tecniche e la fiducia nel sostegno che il compagno o la natura gli offrono.
Considerando bene la cosa non posso fare a meno di notare che lo stesso succede nella maggior parte delle relazioni e delle scelte che facciamo.
Siamo spesso in costante conflitto fra vecchio e nuovo, fra paura del cambiamento e bisogno di evolvere e crescere.
E’ comprensibile, il nuovo spaventa, specialmente se non nasce da un nostro desiderio, ma ci casca addosso come una valanga, siamo esseri abitudinari, anche i più selvatici di noi hanno bisogno di abitudini e di uno spazio che possano chiamare casa.
Il cambiamento spesso ci fa temere di perdere la sicurezza, così come l’incontro con chi vive diversamente da noi.
Il nodo che genera questa sofferenza sta in questo timore, e anche nel fatto che spesso leghiamo la nostra identità a ciò che abbiamo e facciamo.
Come ti chiami? Che lavoro fai? Dove abiti?
Nel nome e cognome identifichiamo le radici famigliari, nella professione compaiono status e attitudini, nel luogo che chiamiamo casa si intravede lo stile di vita, creiamo intorno alla nostra identità un recinto di certezze in cui abbiamo una zona di comfort più o meno comoda.
Ma la vita, che ne sa molto più di noi, ama mescolare le carte e far cadere le torri per farci tirare fuori qualcosa di più.
A questo punto ci si ritrova a dover fare una scelta intima fra la paura del nuovo e ciò che costituisce l’idea che abbiamo di noi stessi e di chi dobbiamo o possiamo essere per vivere sereni.
Se lo scossone è grande, o se il recinto si fa così stretto da toglierci il respiro ci tocca però guardare bene il carico che abbiamo deciso di raccogliere.
Ogni certezza ha un peso, è un sasso di cui decidiamo di farci carico, e il carico che scegliamo di portare per sentirci più sicuri è solo nostro.
E come facciamo quindi a decidere quale sasso è prezioso, e cosa è solo un peso?
La chiave sta nel cuore, il ritmo lo decide lui.
Se lo ascoltiamo davvero e iniziamo a lasciare andare quello che ci appesantisce la vita diventa musica e gioco, ci travolge in un ritmo fatto di stagioni, bellezza e immensità anche quando attraversiamo dolore o periodi bui.
Per questo mi ritrovo spesso a dipingere corpi che danzano, trovo che sia la rappresentazione più vicina all’idea che ho dell’anima umana come dovrebbe essere, cioè libera, potente, leggera.
Nuda, fatta di movimento, sensualità, luce e colore.
Felicità è libertà
Da ragazzina mi è stata raccontata una favola in cui c’era un uccellino blu che rendeva tutti felici, e chiunque lo trovava voleva tenerlo per sé e chiuderlo in gabbia.
Ma lui in gabbia non ci voleva stare perché ci moriva, e in un modo o nell’altro riusciva sempre a scappare.
C’era chi lo voleva comperare, ma la felicità vera quando la hai provata non la vendi a nessun prezzo.
C’era chi lo voleva rubare, ma lui scappava alla velocità della luce appena il ladro cercava di toglierlo dalla gabbietta sfiorandolo appena.
Alla fine il povero uccellino veniva finalmente liberato e di sua spontanea volontà andava ad appoggiarsi su dei bambini che non volevano acchiapparlo, ma solo giocare con lui.
Se vi interessa approfondire: la storia dell’uccellino blu nasce da un racconto scritto da Maurice Maeterlinck, The blue bird, da cui è stato tratto un film con Shirley Temple nel 1940 che trovate a questo link: https://youtu.be/E-sFiXEFQVU.
Le gabbie sono nemiche della felicità.
Anche la pretesa di essere felici da soli è una follia, la felicità è una bestia selvatica e assolutamente democratica….è come la morte, ‘na livella!
Tutti possono incontrarla, ma bisogna farsi vedere dalla felicità, chi se ne sta seduto nella sua gabbietta pieno di invidia a parlare male di chi sta fuori a giocare con lei non otterrà molto.
Forse troverà il supporto di altri infelici codardi, ma la felicità è un’altra cosa.
Sì la felicità è per i coraggiosi.
Solo chi ha il coraggio di lanciarsi nella tempesta può diventare un uccellino blu.
Un quadro piccolo piccolo, perché la felicità vera sta nelle cose piccole, olio su tela.